In questo articolo si fa focus sulla figura del “caregiver” in ambito familiare, con oneri e onori.
Come in uno spettacolo teatrale, quando si tratta di disabilità, gli attori sul palco sono le persone disabili, pronte a mettere in scena la meraviglia della vita, ma spesso ci si dimentica di tutte le persone dietro le quinte, defilate, nascoste, ma fondamentali per la riuscita dello show.
Il termine anglosassone “caregiver” è ormai entrato stabilmente nell’uso comune. Indica “colui che si prende cura” e si riferisce naturalmente a tutte le figure che assistono le persone ammalate e/o disabili che non sono in grado di provvedere a se stesse in maniera autonoma, del tutto o in parte. I caregiver si suddividono in due macrocategorie: formali (ovvero le figure professionali che svolgono questo compito: badanti, assistenti personali, operatori sociosanitari, operatori di comunità, infermieri, educatori) e informali o primari (e si riferiscono a coloro che fanno parte del nucleo familiare: genitori, figli, coniugi o compagni, sibling).
“Prendersi cura” è un lavoro complesso e quando l’altro è una persona disabile entra in gioco un quotidiano contatto con il disagio, la difficoltà e talvolta con la sofferenza. Per poter svolgere al meglio questo compito, il caregiver dovrebbe possedere un buon equilibrio personale, ottime competenze tecniche, relazionali e di osservazione, capacità di gestire conflitti e contraddizioni e di svolgere attività operative ed essere dotato di conoscenze multidisciplinari. Se i caregiver formali, scegliendo una professione di cura, possono essere facilitati da attitudini innate e da anni di studio, i caregiver familiari si trovano invece in una posizione di non scelta e potrebbero non avere queste capacità. Inoltre i vissuti delle possibili figure familiari saranno sostanzialmente diversi: infatti i genitori, naturalmente più disponibili alla cura, mostrano facoltà di adattamento superiori a quelle di un coniuge che si ritrova improvvisamente in un ruolo del tutto inaspettato (ad esempio quando la diagnosi avviene in età adulta). Per di più risulta molto diversa l’esperienza di un compagno/a che sceglie di condividere la sua vita con una persona affetta da una patologia fisico-motoria rispetto al vissuto di un fratello/sorella che si sente in dovere di sostituire i genitori.
Tuttavia, quando si tratta di patologie neuromuscolari e degenerative, tutti i caregiver familiari mostrano una preoccupazione riguardante l’eventuale imprevedibilità della malattia e una difficoltà ad adattarsi al continuo cambiamento e al possibile peggioramento.
Quando ci si prende cura di una persona con disabilità, il possibile rischio è lo sviluppo di quello che viene definito come “peso dell’assistenza”, un carico e una sofferenza emotiva (caregiver burden and emotional distress) percepiti dal caregiver, che influenzano e si ripercuotono in modo globale sulla qualità della vita di chi assiste.
Ogni giorno il caregiver valuta quali sono le richieste di assistenza (attività quotidiane e supporto emotivo) e la propria capacità di soddisfare queste richieste. Se la valutazione è positiva, anche la risposta fisiologica, affettiva, comportamentale e cognitiva sarà positiva, diminuendo così il rischio di carico assistenziale (burden) e aumentando il proprio senso di autoefficacia e autostima. Al contrario, se la valutazione è negativa (non ce la faccio, non sono in grado, sono esausto/a), anche la risposta sarà negativa e il rischio di burden aumenterà.
Numerosi studi effettuati su caregiver familiari, hanno evidenziato come il carico, descritto poc’anzi, possa essere suddiviso in cinque sottogruppi:
Carico oggettivo, che dipende dal tempo richiesto dall’assistenza ed è associato alla restrizione di tempo per il caregiver.
Carico evolutivo, inteso come la percezione del caregiver di sentirsi tagliato fuori rispetto alle aspettative e alle opportunità dei propri coetanei.
Carico fisico, che descrive le sensazioni di fatica cronica e i problemi di salute somatica.
Carico sociale, ovvero la percezione di un conflitto di ruolo.
Carico emotivo, cioè i sentimenti e le emozioni nei confronti della persona assistita, che in alcuni casi possono essere indotti anche da comportamenti imprevedibili e bizzarri.
Il carico è un costrutto multidimensionale e diversi fattori possono contribuire allo sviluppo della sindrome del burden, che nei casi più gravi può arrivare a sfociare in patologie organiche croniche, in stati d’ansia generalizzata e in stati depressivi importanti.
Questi fattori possono essere di rischio o di protezione rispetto allo sviluppo del peso dell’assistenza, come la disorganizzazione/organizzazione dei ruoli all’interno della famiglia e della routine quotidiana, la mancanza o la presenza di supporto sociale e familiare, la quantità di tempo trascorsa insieme al proprio familiare, il tipo di patologia, la sua gravità e la relativa compromissione, il ruolo del caregiver all’interno della famiglia e le sue strategie di coping (cioè il modo con cui le persone rispondono e fronteggiano situazioni avverse e sfidanti) e infine gli aspetti economici.
Il supporto psicologico ai caregiver è uno strumento fondamentale di accoglienza e riconoscimento dei vissuti e delle difficoltà provocate dai vari carichi. Il percorso di supporto psicologico è la costruzione di uno spazio personale in cui si possono esplorare emozioni come la stanchezza, la rabbia, la debolezza, l’impotenza, l’angoscia, la tristezza e la frustrazione. Uno spazio in cui non si è soli, dov’è possibile: 1) Conoscere e comprendere ciò che accade all’altro rispetto alla patologia e quindi esplorare ed elaborare la disabilità, dove viene favorita la consapevolezza dei bisogni dell’altro, ma anche e soprattutto dei propri; 2) Lavorare sull’importanza di ricercare i propri spazi per non confinare tutto nella relazione di cura e di conseguenza imparare a delegare per non farsi carico di ogni aspetto; 3) Spostarsi da ciò che fa sentire impotenti e che non si può cambiare a ciò su cui è possibile intervenire; 4) Raggiungere la consapevolezza che l’altro è diverso e può avere credenze, esperienze, sensazioni e significati differenti.
Intervenire nel presente aiuta i caregiver a essere compresi, validati e legittimati nelle proprie emozioni (anche quelle più scomode), favorendo così l’aumento dell’autostima e il senso di autoefficacia. In ultimo, ma certamente non per importanza, supportare i caregiver vuol dire fornir loro uno spazio di riflessione su temi importanti e dolorosi come il “dopo di noi” (il mantenimento della qualità della vita, la possibile solitudine relazionale, chi se ne occuperà) e la paura di dover affrontare la morte del proprio figlio/a, fratello/sorella, compagno/a o genitore.
Quando si sale su un aereo, durante l’illustrazione delle procedure di sicurezza, gli assistenti di volo raccomandano, in caso di depressurizzazione della cabina, di indossare per primi la maschera con l’ossigeno e soltanto in seguito di aiutare i bambini o le persone non autosufficienti. Ciò sembrerebbe controintuitivo, ma per poter aiutare qualcuno dobbiamo avere le forze di farlo. Per questo è così importante dare supporto ai caregiver, così che, in pieno possesso delle loro forze, riescano a essere il miglior sostegno possibile per le persone assistite.